Progetto vincitore del concorso "Edition 365" indetto dal British Journal of Photography e 1854.
Per visionare l'esposizione digitale del concorso visita il sito di New Art City
20 Settembre 2020.
Qualcuno tempo mi disse che una buona fotografia non necessita di spiegazioni, deve essere comprensibile al primo colpo d’occhio.
Pur restando convinto che quel qualcuno avesse solo in parte ragione credo che l’immagine che mi trovo tra le mani oggi, dopo sei mesi di attesa, rappresenti una rara eccezione.
Certo, forse risulterà difficile considerarla una buona immagine, ma per me ha un valore immenso.
Quella che segue è la spiegazione di questa fotografia, la sua storia e, in un certo senso, la storia di molti di noi.
Difficile dire quando tutto ebbe inizio.
Forse il 30 gennaio con i primi due casi di SARS-CoV-2 a Roma, oppure il 17 febbraio all’ospedale di Codogno. O ancora il 6 marzo con l’inizio del lock down.
Trovare una data zero non è una cosa semplice, so solo che tutto d’un tratto quelle notizie che sembravano prese da un romanzo di King si tradussero in una pandemia globale e in un conseguente lock down.
Io mi capacitai realmente della situazione con qualche giorno di ritardo; l’8 o il 9 marzo, credo.
Quella sera stavo percorrendo con Nya, il mio cane, il viale di Brescia in cui vivo ed ero rapito dal quasi assoluto silenzio di quella che ero abituato a conoscere come una strada chiassosa e trafficata.
L’unico suono percepibile era un cigolio metallico che tagliava con chirurgica precisione l’atmosfera aliena di quella serata di fine inverno.
Andai alla ricerca del suono e scoprii che a generarlo era una bandierina pubblicitaria di un distributore di carburante.
Beh, non so dire con certezza se quell’affare si fosse sempre lamentato al vento o se fosse una novità di quella sera, ma sono certo che prima d’allora non mi fosse mai capitato di accorgermene.
Quel suono azionò il mio interruttore, fece “Click”, e mi gettò per la prima volta in uno stato d’ansia e preoccupazione.
Mi misi in testa che in qualche modo avrei dovuto documentare quella nuova realtà quotidiana ed iniziai a portarmi sempre appresso una piccola macchina fotografica.
Ben presto però i soggetti possibili iniziarono ad esaurirsi o comunque a non convincermi più.
Decisi così che avrei dovuto ritrarre la città in cui vivo, Brescia, in un solo scatto lungo svariati mesi (non sapevo ancora quanti) e per farlo costruii una rudimentale macchina fotografica utilizzando un grosso barattolo di latta, un foglio di carta fotografica e una buona dose di fascette di nylon, nastro adesivo e filo di ferro.
Il 16 marzo mi recai sul tetto della mia abitazione, dal quale è possibile vedere il duomo di Brescia, lo inquadrai ed assicurai la grossa fotocamera ad una pluviale.
Avrei potuto installarla in decine di luoghi più azzeccati ma che non avrebbero avuto lo stesso significato e che inoltre mi avrebbero portato a violare i decreti in vigore.
Così quel giorno il barattolo iniziò a registrare l’immagine e il sole tracciò la sua prima linea sulla carta.
Quel barattolo ha resistito a vento, pioggia, temperature alte e basse ed ha continuato, giorno dopo giorno, secondo dopo secondo, ad inquadrare il cielo di Brescia registrando informazioni e creando l'immagine che ora mi trovo tra le mani.
Ogni mattina rientrando dalla passeggiata con Nya ho cercato la rudimentale fotocamera con lo sguardo per verificare che fosse ancora lì, ma non mi sono mai recato sul tetto per controllare se fosse intatta. Mi bastava vederla.
Per sei mesi ha resistito e ha svolto il suo compito e per sei mesi mi ha ricordato ad ogni colpo d'occhio che nonostante le difficoltà e le paure avrei dovuto resistere anche io.
Avremmo dovuto farlo tutti.
La mattina del 16 settembre decisi (con pochissime speranze) di rimuovere la fotocamera e “stapparla”.
Scelsi quella data perché coincideva per me e la mia famiglia al ritorno di una timida normalità fatta di lavoro, progetti e speranze per il futuro.
Dentro ci trovai quello stesso foglio di carta fotografica di sei mesi prima ma assai provato dal tempo: graffi, segni di umidità, strappi.
Un foglio sgualcito e fragile con una storia lunga sei mesi scritta sopra, con tratti leggeri e di difficile lettura.
Mi ci sono rivisto in quel foglio e ci ho rivisto la storia di tutti noi: fragili e indifesi ma allo stesso tempo instancabilmente tenaci.
E non importa se il Duomo risulta una tenue ombra tra i pini e l’inquadratura non è quella sperata: quello è il cielo sotto il quale la città in cui vivo e i suoi cittadini hanno resistito e quelle tracce sono il ritmo del tempo scandito dal sole che ci ha illuminato.
Il barattolo ora ha assolto al suo scopo e giace qui a pochi metri da me.
Il foglio di carta su cui l’immagine è impressa è in una busta, protetto dalla stessa luce che l’ha creato ma che potrebbe anche farlo svanire per sempre.
Noi probabilmente dovremo resistere ancora un po’ prima che tutto questo finisca, e sicuramente alla fine ci sentiremo stanchi e sgualciti, ma sono certo che resisteremo.
Grazie a Paola e Pietro che mi hanno accompagnato in questi lunghi mesi.
Grazie a Nya per le passeggiate.